Com'è iniziata la tua passione per il disegno e quando hai deciso di farne una professione?
Bé, come la maggior parte degli artisti (e delle persone in generale), non ricordo quando iniziai a disegnare — direi appena ho potuto tenere in mano una matita. Avevo una vaga consapevolezza di essere bravo a disegnare per essere un bambino, così circa dall’età di cinque anni, fui in grado di riprodurre con fedeltà e con una certa somiglianza le cose che vedevo, sia nella vita reale sia nella televisione e nei film. I miei genitori e i miei amici mi incoraggiarono molto, così ho continuato a sviluppare queste capacità da bambino e durante l'adolescenza.
Comunque non ho sempre voluto diventare un’artista, soprattutto perché avevo l’impressione di dover avere un vero lavoro per stare al mondo, e disegnare e dipingere per guadagnarsi da vivere non era un vero lavoro. Sono anche cresciuto senza conoscere nessun artista, quindi fare l’artista era un po’ un concetto astratto. Avevo anche altri interessi, specialmente scienze, storia e letteratura. Volevo diventare un pittore? Non ne ero sicuro. E’ stato soltanto quando ho finito la laurea in arte che ho realizzato di non essere qualificato per nient’altro oltre alla pittura, avendo fatto alcuni lavori free-lance per raggranellare soldi. Decisi di concentrarmi sull’illustrazione come carriera a tempo pieno, cominciando a portare agli editori il mio portfolio. Il lavoro all’inizio era lento, ma dopo un po’ ebbi clienti fissi, e realizzai che sì, puoi fare una vita decente disegnando e dipingendo immagini dopotutto. Puoi perfino dare voce ai tuoi interessi e alla tua espressività.
Quali sono i tuoi artisti di riferimento come scrittore e quali come disegnatore?
E’ interessante che tu separi autori e artisti come influenze provenienti da discipline diverse. Credo che questo sia parzialmente vero, ma gli scrittori incidono anche sul mio modo di dipingere e alcuni artisti influiscono sul mio modo di pensare la narrativa. Forse i più importanti sono quelli che fanno entrambe le cose, certi creatori di libri illustrati, artisti del fumetto e registi (tutte materie molto simili). Ce ne sono letteralmente centinaia, ma per nominare alcuni scrittori-illustratori: Raymond Briggs, Edward Gorey, Maurice Sendak, Chris Ware, Chris Van Allsburg. Tra gli artisti includo molti pittori australiani di paesaggi, e un sacco di pittori modernisti europei e americani, dall’impressionismo alla pop art, così come i “vecchi maestri” che spesso trattano l’immaginario narrativo e l’idea del sublime del diciannovesimo secolo. Tra gli scrittori che mi hanno ispirato ci sono: Ray Bradbury quando ero un adolescente, e più tardi gli scrittori australiani Tim Winton e Peter Carey. Continuo a essere attratto dal romanzo breve surrealista e dal realismo magico.
Hai collaborato come character designer al Film WallE, raccontaci qualcosa di questa esperienza.
Ho realizzato alcuni schizzi e disegni preparatori, presentando idee per diversi paesaggi al dipartimento artistico Pixar. L’ambito su cui mi sono concentrato principalmente è stato il pianeta terra sepolto dai rifiuti e l’interno della vasta nave spaziale, sebbene all’epoca le indicazioni fossero differenti, non c’erano personaggi umani nella sceneggiatura. C’era anche un elaborato mondo robotico sotterraneo per il quale ho fatto degli schizzi, ma che alla fine non hai mai trovato spazio nel film.
La fisionomia di WallE ricorda quella dell’E.T. creato da Carlo Rambaldi e quella del robot presente nel film Corto Circuito. Sai se questi personaggi, entrati nell’immaginario collettivo, sono stati di riferimento nel processo creativo?
Sinceramente non saprei che dire, non ho avuto niente a che fare con il design dei personaggi! Ma per rispondere in generale, le cose realizzate diventano parte dell’immaginario comune, e tutti poi ne attingono.
Hai realizzato un cortometraggio animato con Passion Pictures intitolato “The Lost Thing”, basato su una delle tue storie brevi che hanno ricevuto una menzione d’onore alla Fiera Internazionale del libro di Bologna. Com’è cominciata questa collaborazione? Puoi presentare ai lettori italiani “The Lost Thing”?
E' una storia in apparenza abbastanza semplice, su un ragazzo che vive in una città molto industriale e scopre una strana creatura sulla spiaggia, qualcosa di simile a un grande macchinario, un granchio o un polpo. Il ragazzo decide di adottare la creatura e questo porterà a una serie di problemi imprevisti. “The Lost Thing” funziona sia come una storia per bambini che come una fiaba per adulti su burocrazia e apatia, nonché come una riflessione filosofica sulla natura del senso di appartenenza.
“L’Approdo” è una storia universale, raccontata attraverso illustrazioni che comunicano efficacemente con lettori di tutte le età. Com'è nata l’idea di raccontare questa storia e come ti sei organizzato per le diverse fasi di lavorazione?
Questa è una bella domanda! L’idea si è sviluppata gradualmente, iniziando da una pila di schizzi davvero poco chiari, che riguardavano principalmente una figura che trasportava una valigia in un luogo bizzarro. L’idea sembrava risolversi da sola in una storia sull’immigrazione, perciò passai un po’ di tempo documentandomi sull’argomento e venendomene fuori con l’idea di raccontare una storia “universale” di fantasia su un migrante, che potesse contenere elementi delle molte diverse storie di vita reale che stavo leggendo. Pianificai in dettaglio varie e diverse versioni del libro, di differente durata, in diversi stili, e feci molta fatica cercando di trovare quella giusta. Ma questa fase di “ricerca e sviluppo” è abbastanza normale per me, e trascorro alcuni mesi facendo brainstorming prima di trovare qualcosa d’interessante (e a volte non del tutto).
Ma una volta che ho delineato la storia, e ho trovato uno stile che mi sembra il più appropriato per il tema, sono metodico per quanto riguarda la produzione di ogni pagina d'illustrazioni, seppure non in ordine, e cambiando spesso idea su struttura e dettagli. Ho probabilmente disegnato l’intero libro circa quattro volte prima di sentirmi soddisfatto del risultato come narrazione visiva.
L’impostazione che hai dato a “L’Approdo” è quella di un vecchio album di fotografie, quasi un libro di memorie da sfogliare per rivivere esperienze passate eppure estremamente attuali. C’è qualcosa di autobiografico in quest’opera?
Non proprio. Almeno non autobiografico; il personaggio principale della storia ha un aspetto simile al mio, e più o meno agisce nel modo in cui potrei agire io nella stessa situazione anomala, ma qui finiscono le somiglianze. Una delle storie d’immigrazione a cui ho pensato molto mentre lavoravo al libro è stata quella di mio padre, che venne in Australia occidentale dalla Malesia come studente nel 1960, in seguito sposò mia madre e rimase qui. Alcune delle sue osservazioni e manierismi influenzano le mie immagini (e lui appare nel libro come personaggio, affiggendo locandine). A parte questo, vari pezzi e frammenti possono essere ricondotti a commenti fatti da diversi migranti, in relazione a cibo, lavoro, lingua, alloggio, clima, situazioni da evitare e così via, oltre alle fonti di pericolo o oppressione nella loro terra natale.
Sai se gli editori italiani hanno in programma di pubblicare in Italia le tue opere precedenti a “L’Approdo”?
Non saprei, ma non credo. Sicuramente sarei felice se accadesse, dato che libri come Lost Thing, The Rabbits e The Red Tree sono importanti come L’Approdo, inoltre ci sono connessioni tematiche interessanti fra tutti i miei lavori.
“L’Approdo” e’ stato considerato uno dei libri migliori del 2008 da gran parte della critica di tutto il mondo. Credi che questa considerazione possa influenzare il tuo approccio alla realizzazione dei prossimi libri? Hai ricevuto molte offerte dagli editori?
Sì, per me la conseguenza principale riguarda il modo in cui gli altri percepiscono il mio lavoro. Non penso che questo influenzi il mio giudizio o il mio spirito critico più di tanto. Ovviamente gli editori vorrebbero che tu uscissi con una serie di libri di successo, senza nessun calo d’interesse, ma sfortunatamente non è così facile! Tendo a lavorare molto lentamente e un sacco delle mie idee non sono quelle davvero buone. Non voglio cadere nella trappola di lasciare agli altri la scelta del tipo di lavoro che finirò col fare, o provare a compiacere un pubblico immaginario. Fortunatamente la mia vita lavorativa non è cambiata molto, ci sono sempre solo io da solo in una piccola, disordinata stanza! Non posso immaginare di produrre un altro libro come l’Approdo tanto presto, se proprio, dipende solamente dall’avere la giusta idea al momento giusto e trovare una “voce” che funzioni.
Credo che “L’approdo” abbia molti livelli d’interpretazione e presenti molti simboli e metafore. Uno degli elementi più affascinanti sono gli strani animali. Puoi dirci qualcosa a proposito di questo elemento, o da dove venga l’ispirazione per la creazione di quelle affascinanti e strane figure?
Fondamentalmente essa nasce dal fatto che gli animali sono spesso utilizzati per simboleggiare differenze culturali o d’identità, specialmente qui in Australia, dove siamo perlopiù caratterizzati dal nostro paesaggio naturale. Gli animali sono un tema ricorrente nel mio lavoro, trovo la relazione fra gli animali e i loro padroni infinitamente affascinante. Mi piaceva l’idea che un animale possa rappresentare qualunque cosa ci sia da dire su temi riguardanti differenza culturale, problemi di comunicazione, amicizia e approvazione , che è quello di cui parla in realtà L’approdo.
“Piccole Storie di Periferia” è un’antologia di racconti brevi all’interno della quale tratti diverse tematiche e utilizzi vari stili grafici. Eppure quest’opera riesce a risultare coerente e organica, come ci sei riuscito?
Questa è una domanda interessante, perché per tutto il tempo mi sono chiesto se queste storie fossero connesse tra loro o del tutto indipendenti. Effettivamente ho realizzato ognuna di esse separatamente, ma nello stesso periodo di tempo, così suppongo che le stesse preoccupazioni siano filtrate dentro ad ognuna di queste piccole opere. Inoltre ho basato l’atmosfera generale di ogni storia sui miei ricordi di crescita nei sobborghi della periferia australiana — e in Perth, una delle città più isolate del mondo. Questo ha portato automaticamente a una certa coerenza, tutte loro vengono dallo stesso luogo della mia immaginazione; e anche se cambio stile, sto sempre lavorando nello stesso modo, come modo di pensare.
Le “Piccole Storie di Periferia” si sviluppano spesso in ambienti surreali. Da dove nasce l’ispirazione per questo tipo d’atmosfera?
Varia da storia a storia, ma fondamentalmente parto sempre dalla domanda “cosa accadrebbe se?”. Prendo qualcosa di davvero ordinario, come un ambiente urbano familiare, e introduco un elemento bizzarro, come un mammifero marino, o un missile, o una renna cieca, spesso sbucati fuori da veri e propri incidenti nel mio quaderno degli schizzi. Allora cerco di risolvere ogni situazione con una qualche specie di spiegazione, senza interferire con la magia o il mistero presenti in esse. A volte funziona e a volte no.
Fra questi racconti ce n’è uno a cui sei particolarmente legato? Come mai?
Mi sento legato a diverse storie per diversi motivi. Una storia che mi trasmette “autenticità” è la penultima, che racconta di due fratelli che cercano di scoprire cosa ci sia sul confine di una cartina dei sobborghi.
Incorpora molte delle mie sensazioni riguardo al crescere nei sobborghi; e i protagonisti nella storia siamo essenzialmente mio fratello e io da bambini.
In “Piccole Storie di Periferia” hai inserito diversi animali: un bufalo, un dugongo, una renna, una processione di cani e alcune tartarughe da salvare. Hai una particolare attenzione o interesse per il mondo degli animali?
Come per la domanda riguardante le creature presenti in “L’Approdo”, c’è una specie di silenziosa consapevolezza negli animali che sembra sfuggire alla maggior parte di noi impegnati dalle nostre frenetiche vite moderne. Io non penso che gli animali manchino di intelligenza, semplicemente hanno dei differenti tipi di intelligenza, e hanno molto da insegnare all’uomo su come vivere.
Ci puoi dire qualcosa sulle tue tecniche di disegno? Il tuo stile in “L’approdo” è impressionante e sembra davvero il risultato di una grande evoluzione.
Il problema dello stile, anche conosciuto come “voce”, è spesso il problema più difficile per me, e se risolto, tutti i pezzi vanno al posto giusto. All’inizio ero particolarmente attratto dallo stile dei personaggi semplificati di Raymond Briggs, dalle forme arrotondate e dagli occhi puntiformi, che erano ancora in grado di possedere la gravità di persone reali in situazioni reali. In realtà ho trascorso circa sei mesi lavorando a l’Approdo in uno stile semplificato, una specie di via di mezzo tra il realismo e un cartoon. Ma non è stato immediato per me nel senso che ho sentito che quel mondo non era convincente. In fondo alla mia mente, ho iniziato a pensare “Non sarebbe fantastico se tutto nel libro apparisse come una vera cartolina fotografica da questo mondo” ma la capacità tecnica per fare questo sembrava lontana da far paura!
Alla fine, ho provato uno stile più fotografico, usando attentamente fotogrammi video come riferimento, e ho realizzato che questo non era soltanto più convincente dal punto di vista narrativo, ma anche più efficiente per quanto riguarda la produzione di un insieme di immagini coerente (dove i vestiti, le luci, i volti dei personaggi e così via fossero coerenti). Ho realizzato che il progetto che avevo in mente aveva più a che fare con i film muti che con i libri illustrati (il mio medium abituale), e quindi mi sono accostato alla storia come a una specie di film. A dire il vero ho filmato sequenze usando famiglia e amici come attori, e ho creato “scenografie” approssimative (più tardi trasformate sul tavolo da disegno) con figurini e scatole di cartone. Per ogni pagina del libro ho realizzato lo storyboard della scena, organizzato riprese per luoghi e momenti della giornata, cercato oggetti e vestiti appropriati, discusso ogni scena con gli “attori”, filmato dozzine di brevi sequenze, isolato i migliori fotogrammi e usato questi come base per ogni pannello. Ho anche realizzato piccoli modelli di creature e oggetti (come le barche volanti) che ho potuto fotografare come riferimento — luce, ombra, texture, prospettiva, e unirli in scene con paesaggi e persone. Se sin dall’inizio avessi pensato a questo modo di lavorare, avrei risparmiato un sacco di tempo e prevenuto un po’ di mal di testa! Sebbene questo sia successo con ogni libro che ho fatto; inizio lavorando con uno stile, e finisco facendo qualcosa di molto diverso, in funzione delle esigenze della storia, e deve succedere attraverso un’evoluzione. L’inizio è sempre difficile per me, e lo slancio nasce una volta che ho risolto i problemi stilistici.
Noi italiani non sappiamo molto del mondo del fumetto e dell’illustrazione australiani. C’è una grande scena o e’ difficile diventare un professionista? Puoi segnalarci autori o illustratori australiani che meritano attenzione?
Non è una grande scena, tuttavia ha maturato esperienza per un po’ e attualmente è in crescita e gode di maggior attenzione da parte della critica rispetto al solito. Io mi sento come un nuovo arrivato nel fumetto (considerandomi più un illustratore e pittore), quindi per ora non so ancora granché di questo mondo. Sembra che molti fumettisti australiani lavorino su progetti americani o francesi, in questo senso noi siamo un po’ un satellite, non sono a conoscenza di nessun editore locale di fumetti. Un fumetto interessante recentemente pubblicato è l’adattamento de Il Grande Gatsby di Nicky Greenberg, dove l’autrice ha disegnato tutti i personaggi della storia come mostri. Un altro fumetto in uscita a breve e realizzato da un mio amico, Nathan Jurevicius (canadese/australiano), s’intitola “ScaryGirl” — selvaggiamente fantastico e sicuramente da tenere d’occhio.
Ferdinando Maresca, Valerio Stivè, Luigi Filippelli
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